PER MAURO CAPITANI

 
 

                                                                                                                                                                                         



Vi è come un affollamento di suggestioni, di pulsioni che vengono da lontano a traversare l’occhio del “guardatore di quadri” il quale si ponga impreparato (ed attratto)  innanzi all’opera di Capitani. Capitani ha cinquantaquattro anni e dipinge da trentacinque. Per venire a capo di tale sobollente back-ground si potrebbe cominciare così: cosa accadeva nel mondo della pittura quando Capitani decise di fare il pittore (negli anni che precedettero quella sua prima personale del 1967, poco più che adolescente)?

Un giorno qualcuno lanciò un grido: “dov’è la festa?” suscitando stupore. Il dramma, se non il tragico, per contenuti se non per forma e colore non si era affatto spento. Guerre, impiccagioni, funerali. A ben vedere Guttuso che fa la pittura con la storia e Fontana con i suoi tagli si propongono di comunicare ognuno a suo modo l’angoscia in mancanza di pietà ed il nulla che ne consegue. Temi di una pittura civile oppure concettuale/spaziale, sempre di ferite si tratta.

Intorno vi erano molte cose; ma perdurava l’inafferrabilità di miraggi nel  deserto, (il sollievo di chi vi si era sperduto in prossimità di oasi e pozzi inesistenti che crudelmente dileguano); in realtà, alla vigilia del maggio francese circolava, inavvertita ma presente, persino una deriva degli Anni Quaranta, i temi di un attardato espressionismo, diciamo - nelle nostre prossimità - addirittura l’implusione  di Sironi, (il grigio e il verde della depressione, del lavoro come maledizione biblica e dei cadaveri, in parallelo all’egualmente drammatico tributo al regime, mutando il proletario con il badile da vittima ad eroe, che riconosciamo pari pari nel realismo epico di tutt’altra sponda); e più tardi - siamo già alla metà del secolo - le forme informi di Bacon, le figure colate nel gesso di Segal, anche loro in palese avvio alla decomposizione. Echi dell’Urlo di Munch? Del nitrito agonico del cavallo di Guernica? (Bisognerà attendere le ultime fiammate erotiche dei disegni di Picasso per non disperare  sulla ricomparsa dell’allegria nel mondo: che  rampolla  come intrigante  epifenomeno di senescenza dei grandi maestri.)

Nella  letteratura critica  che accompagna l’opera di Capitani,   ricorrono concetti come poeticità, mediterraneità (senso del mito), rinascimentalità, lasciti della grande tradizione che Capitani non trascura (ma una lettura diversa di tale giudizio potrebbe riconoscergli l’estrema libertà di inventare e bruciare ecletticamente temi, stili, modi per riattingere a tutt’altro come era nel Rinascimento). Tutto questo farebbe parte della fase di incubazione delle sue idee come le si percepiscono oggi (oggetto, forma, colore).

Allora, per quello che lo riguarda, è qui la festa, inseguita in questo o quel territorio delle sue suggestioni/ispirazioni in successive alternanze? Poiché quel senso di morte e di tristezza, di cui abbiamo citato  esempi illustri non ignorabili, si spinge sino ai nostri giorni, va da sé che Mauro Capitani ha dovuto fare i conti anche con tutto questo, lui che cita Baudelaire e Nietzsche per dirsi ‘alimentato da uno spirito all’erta’;così conduce un suo giuoco erudito manipolando da acculturato almeno un secolo di pittura con leggerezza e maestria; quindi la festa,  la sua festa contrapposta  è qui. Sarebbe qui… 


Facciamo un’ipotesi: il nostro artista ha visto andare in cenere (tra l’altro) Van Gogh, Chagall, Matisse,  Kandinsky  con ognuna delle loro feste individuali e con tutti i loro colorismi che catturarono gli sguardi dei bambini prima che dei critici d’arte, colori turbinanti pescati nella follia da van Gogh, nell’onirismo ebraico di Chagall, nel fiabesco africano (colto nelle vetrine di un negozio di souvenir esotici in rue de Rennes) di Matisse, nelle icone e nei panneggi degli abiti da festa delle ragazze del villaggio (osservazione antropologica  dei muzichi del distretto) nel governatorato russo di Volodga da parte di Kandinskiy, quarto tra i succitati artisti, che era anche un etnografo. Tutto questo frana in abissi che si vorrebbero insondabili; la pittura sdraiata nel lettino di Freud?

Mentre Capitani è all’inizio dell’ inseguire le sue fascinazioni si è da tempo radicata la temperie di un certo naturalismo informale - da Pollock al nostro Tancredi - scoppiettano, tra felicità ed infelicità sino al suicidio,  guizzi e tetraggini; anni dopo, mentre lui sonda percorsi in qualche modo disattivati dalla weltanschaung corrente (‘La moglie del marinaio’, ‘Il guardiano della storia’) un critico sbarca a New York e dopo aver rovistato negli ateliers di questo e di quello, visitato la factory di Andy Warhol torna in Italia ruminando il progetto post pop di qualcosa che chiamerà trans-avanguardia (ma  - qualcuno ricorda ancora - come, almeno  in quella fase di avvio, ogni eccitazione è frenata, è privilegiato il non-volo nonostante, forse, le intenzioni); mentre Capitani comincia a dipingere “Il velo di Ino”…Dov’è finita in generale la festa della pittura con i pennelli ed i colori? 

E se qualcuno ci prova non va oltre le ricette più recenti: si depongano grandi segni neri su fondo bianco, cioè Kline, il nero, il bianco colori primari: bellissimi, mortuari.

Certo: la pittura fatta con i pennelli ed i colori. Perché a parte conquiste rispettabili, il resto è paccottiglia. Belli i cretti di Burri che non ebbero   quel tetro simbolismo ufficiale avallato dall’autore; ma i  sacchi, i cellophan parzialmente liquefatti, le garze bruciate loro, sì. Caso mai si cadesse in equivoci fu  l’artista stesso a chiosare quelle sue prime opere come reminiscenze di ospedali da campo, della macelleria della guerra, di reticolati della prigionia…Così a ben guardare, (Capitani e noi come lui ) quanta pittura ancora ai nostri giorni persiste ad evadere nel segno dell’estinzione, ogni luce spenta, ogni forma in dissoluzione, ma non per debiti contratti con  un semi inesistente neo-spressionismo, figurativo o informale che sia; ma perché va generalmente così. Una mordacchia alle emozioni che si sprigionano dal segno e dal colore imposta da una specie di codice non scritto; forse semplicemente dettato dalla tristezza dei tempi, dimenticando che i colori dei quattro artisti evocati lassù (Chagall, Matisse, ecc.) erano antidoto alla tristezza del tempo loro, alla tristezza che vi è sempre stata, un’invariante, questa della tristezza, con cui l’umanità ha sempre dovuto fare i conti.

Sono forse un elogio alla vita i graffiti delle disperazione mordi e fuggi, truccata di pupazzettismo, sui vagoni delle underground newyorkesi di Harrings? Ed i mucchietti di terra, i trucioli, le scaglie di officina ormai rugginosa, il cordame ravvolto e sfilacciato di porti in abbandono dell’arte povera?

Sembra così che Capitani abbia lavorato lungo tutti i suoi trentacinque e passa anni di ricerca figurativa ed altrove, p.e. nel plastico (i bellissimi  vetri blu ed argento, con richiami sonori di onde ed abbacinamenti di trasparenze marine)  per prendere le distanze da tali parole d’ordine, a volte urlate e a volte sommesse, pronunciate a fior di labbro come si parlano i congiurati.

“Non voglio il sonno di Ipno, ma la vita riscoperta nelle sue origini. Sì, credo che quella pittura (quella sua di appena prima) sia veramente un canto alla vita”, scrive di sé in un catalogo. Ed allora ecco sfilare veri e propri tumulti cromatici, sgargianti pirotecnie, un  fiammeggiare che si atteggia al  celebrare miti ‘ambigui’, aperti a molteplici fruizioni, miti antichissimi e moderni, accennati nei titoli; dal “Rapimento d’Europa” di espliciti contenuti (1992) preceduto da un “Moby Dick” (1989) dove la stessa tragedia interiore di Achab si impasta di mediterraneità, travalica nella leggendarietà di un Colapesce dello Stretto di Messina, diventa un fiocinatore delle sirene di Ulisse; sino a quel sentore appena percepibile di splendori coloristici chagalliani calati nell’aura personale di Capitani che è il bellissimo “La piccola fiammiferaia” (1998) ed il  dipinto coevo che sembrerebbe irridente - con quel tazebao, Angelistation,  sorretto da putti che si sono per questo allenati al Gloria in Excelsis Deo delle nostre Pasque - che potrebbe rappresentare quanto abbaglia un viaggiatore della metropolitana newyorkese quando torna in superficie a Time Square: “La stazione degli angeli” (1998), appunto.

Questo vuol dire che Capitani è un pittore “gioioso”? Parrebbe. Nel senso che queste appariscenze, i dipinti ormai collocati sulle pareti di una casa o di una galleria, ormai licenziati al mondo, sono l’endiadi  dell’allegro, del festoso che ognuno di quei  quadri  ingenera.

Il fatto è che le cose non stanno così. E questo è il dato sorprendente, lo stupore a cui il pittore ci accompagna come ad una conquista per ‘felici pochi’.

L’allegria, come la grippe e lo sbadiglio, è contagiosa. Qui ci accorgiamo di non avvertirne i sintomi; al contrario ci accorgiamo di essere  traversati piuttosto dall’inquietudine subodorando un retroscena, qualcosa che ci indurrebbe a rovesciare il quadro e guardarlo da dietro, analizzando la tela, il cartone, la tavola, il supporto su cui Capitani ha steso i suoi colori della ‘festa’ per capire cosa sta accadendo. Come dire: dove è il trucco? Dove è la festa?

La festa non c’è. C’è la pittura endiadica di Capitani.

Come decifrare questa criptica verità che il pittore ci mette sotto gli occhi, quasi una sfida, persino negandola? 

Mauro Capitani è (lo abbiamo visto) un pittore che “scrive”. Non sono molti gli artisti che hanno questo vezzo, nella massima parte dei casi soltanto autoreferenziale; e tra di loro pochissimi i cui testi valgano qualcosa, poiché in tanto diffuso teorizzare avverti subito l’escamotage: appiccicare una didascalia esplicativa alla propria opera, dubbiosi che essa  si giustifichi da sola, che sia percepibile e  percepita; in una parola:  ‘viva’ autonomamente senza la stampella delle istruzioni per l’uso. Come dire che non tutti gli artisti hanno la generosità kandinskiana di fornire agli altri un grimaldello, piuttosto che una chiave, come ‘Lo spirituale nell’arte’, buono per tutte le vocazioni autentiche; o l’umiltà di un Pontormo che ci ha lasciato un diario la cui piattezza quotidiana - “oggi ho mangiato un pesce d’uovo” – scandisce il tempo del lavoro, si offre come esempio di assiduità, chiarisce come il talento, e persino il genio siano perseveranza, ostinazione, felicità dell’estenuazione da lavoro…In questo senso Capitani, la cui letterarietà non si sogna di attingere ad alcunchè di programmatico-teorico, ha lasciato parlare gli altri, sfogliando tutta  la ‘letteratura che lo riguarda’ - abbondante e lusinghiera - chiavi sufficienti semmai ve ne fosse bisogno le forniscono Maccari, Breddo, Paloscia e ciò che affronta in proprio sono temi che, certo, viaggiano sull’onda non di superficie, l’invisibile tapis roulant che trasporta la sua ‘ragione di fare pittura’, ma in realtà aprono finestre sulla inquietudine universale che traversa lui come milioni di altri, contabili e suonatrici d’arpa, ricamatrici o calciatori, filosofi e macellai…  

Per farsi un’idea. Anni addietro Tommaso Paloscia, che è uno studioso delle cose della pittura, così percettivo nel cogliere il senso della corrente interiore che può trascinare un artista verso il ‘sé stesso’ più vero oppure incanalarlo ‘ad limina’ del pasticcio che da anni conglomera questo e quello - una specie di generale disorientamento da nessuno ammesso ma intanto reale e minaccioso, a due passi dal nulla o dalla iterazione all’infinito di trovate stanche, di lambiccamenti che combaciano appunto con il nulla - Tommaso Paloscia lo acquisisce giusto l’anno scorso in un ambito esaltante e pericoloso; un estravagante gesto di devozione  a Masaccio nel sesto centenario della nascita (“Pensando a…) sotto il cui mantello colloca un gruppo né nutrito né sparuto di pittori toscani  work in progress (“L’attualità in Toscana”). Ed a proposito di Capitani, nato come Masaccio a San Giovanni Val d’Arno, Paloscia ne analizza così questo successivo apparire e schermarsi di una interiorità ‘sempre all’erta’: Penso a quei traguardi conseguiti in una vasta gamma di colori (i gialli, i blu, i rossi, i bianchi che usati in solitudine o in aree separate come in grandi tasselli di un mosaico ideale, rappresentano un arco di successi assai vistosi….Ma quando il carattere dell’artista…sospinge questa pittura verso soluzioni chiaroscurali, i bruni iniziali si riaffacciano anche mascherati da scialbature a cercare compromessi nel cui intrigo svanisce la solarità dell’espressione.

Insomma è Paloscia a fornire garbatamente  l’appiglio del legittimo sospetto, per stare al gioco propostoci dall’artista ma senza l’umiliazione di non venirne a capo scoprendone il trucco intellettuale. Vi è una piccola epigrafe che mi ha colpito, collocata in apertura di una  monografia  per una mostra antologica di Mauro Capitani, che si conclude lapidariamente con questa intimazione maiuscolata:…IN SILENZIO. Non esistono feste silenti. Provate a togliere il sonoro mentre sullo schermo della tv scorrono quei tripudi che vorrebbero coinvolgerci nella festa virtuale di un ennesimo granvarietà…L’effetto è spiazzante, stralunato, ogni gestualità finisce per dare nel macabro, l’unica dignità che  rimane a quei tristi e banali giochi mediatici. Altrimenti rimane il ridicolo. Il silenzio mette in chiaro la verità. E la verità è questa.

Da sotto quella rissa  cromatica con cui Capitani si studia di inebriare, affiora tutt’altro.

Appunto, non lo credereste,  il basso continuo della tristezza. Appena può spacca la crosta ed irrompe sotto gli  occhi di chi ha l’accortezza non di un secondo sguardo, ma di un quinto, di un decimo. Persino quando si mette a dipingere le donne, l’estasi apparente di un sesso appena consumato (Ecce Donna).   Una pudica tristezza che non vuole essere dimenticata ma non vuole nemmeno essere un vociferante pretesto di pittura. D’altra parte senza la consapevolezza dei dolori del mondo Capitani sarebbe stato un mutilato, un mostro. Ma non vi è bisogno di strillarlo, di essere un maudit di professione per essere artista.  E’ faticoso - scrive Paloscia - affaticante; ma ogni giorno che passa questa sfida attrae senza stanchezza la voglia di Capitani di fare pittura. Ogni giorno Capitani lo affronta a modo suo. Per quel che riguarda ‘il guardatore di quadri’ rimane la convinzione che un artista vero sia sempre un artista da smascherare.


Taormina, Settembre 2009





                                                                 










                                                                   






 

di Vanni Ronsisvalle