COLORE ED ESISTENZA

 
 

Esattamente come un luogo, una figura, un autoritratto, un colore può rivelare, nella sua enigmatica fisicità, uno stato interiore oscuro e profondissimo. Accade, così, che, a guardarne l’impasto, più dei toni e dei grumi derivanti dalle varie mescolanze, più della stesura liscia o ricca di materia, più del corso, versatile o gestuale, impresso dal pennello, a colpire rimanga una certa confessione, intima e subliminale, collocata dal pittore oltre l’apparenza, in quei territori accessibili soltanto attraverso il senso, la coscienza di cosa sia l’umana poesia.

In questi luoghi dello spirito, da sempre, gli artisti hanno cercato un lontanissimo appagamento al proprio bisogno di verità, ovvero a quella sorta di interna esigenza, sfuggente e indefinibile, che il tempo matura in una più aspra urgenza, costante e insopprimibile.

Un’urgenza, questa, che resiste anche nei lunghi decenni creativi di Mauro Capitani, un autore impegnato, che ha guardato con naturale curiosità e attenzione all’evolversi delle alterne stagioni dell’arte negli ultimi trent’anni senza, tuttavia, condividerne stili e ragioni in modo pedissequo, come sta a testimoniare un itinerario espressivo tonico e continuamente ispirato. Un corso coerente, segnato da una disposizione intellettuale e sentimentale verso il colore, che esprime, taciuta fra i toni ed i pigmenti, anche un’arcana estensione esistenziale, ultima corda di un impegno che, nella sua maggiore intonazione, pare, appunto, ininterrottamente rifarsi a questi due termini essenziali: colore ed esistenza.

Non è dunque un caso se gli ansiosi umori di una ricerca cromatica che affonda le proprie radici nella giovanile attrazione dell’artista per i maestri impressionisti, dopo aver caratterizzato gli anni immediatamente successivi al suo esordio sulla scena espositiva, tornano di volta in volta a contraddistinguere, nelle ermetiche pieghe di un figurazione a tratti realistica, più spesso mediterranea, un’autonoma disposizione verso la mitologia come verso l’ignoto, verso quell’altrove, diresti immaginifico, che ha nei fratelli Giorgio e Andrea de Chirico, ad inizio Novecento, i suoi più illustri frequentatori.

Così, nella seconda metà degli anni Ottanta – l’ora della maturità e della consapevolezza espressiva –, ecco, istantanea, riaffiorare la memoria di un passato aulico in quelle opere di Capitani che, idealmente vicine alla temperie culturale dalla Transavanguardia, debbono al contrario essere riviste e rivisitate nella loro più esatta dimensione immaginifica, un carattere germinato nella suggestione di forme di estrazione onirica e nell’uso, squisitamente mentale, del colore. Un colore che offre, ora, umori interiorizzati, inquietudini rapprese, l’agro disincanto insito in una riflessione quotidiana incapace di guardare alle cose e al mondo con l’illusione e la speranza.

Il ricorso al mito diventa allora scelta inevitabile per rappresentare quella realtà a cui Capitani continua a guardare con indomita tensione per alimentare una metafora densa di contenuti e allusioni, dove i significati si rincorrono ermetici, vorticando caliginosi nelle accese trame cromatiche.

È, questa, la lunga alba della pittura che insisterà per tutto l’ultimo decennio del ventesimo secolo, un tempo di scoperte, ma anche di profonde meditazioni, per Capitani. Una stagione segnata dalla modulazione più lirica di certi accordi cromatici che esaltano una visione della natura colma di suggestioni insistenti: il mare, la terra, lo spazio celeste…

Tutto – dall’uomo alla fauna, dalla flora al mito – comincia a poco a poco a gravitare in un limbo surreale, dove, sbiaditi i confini apparenti, rinascono storie e sentimenti che appartengono ad un’altra realtà. Di quella imposta dal quotidiano, non restano che sfumati ricordi depurati di ogni scoria materiale, nei quali assapori una vita in cammino, che conosce, talvolta, il privilegio della sosta.

Si afferma infine, sotterraneo, un senso di libertà, di pace raggiunta, che ritorna nello stormo di gabbiani bianchi, colti in volo, a disegnare itinerari illanguiditi nel sogno, fra il fantasma di Icaro e quello di una civiltà che ha smarrito ogni incontro con la fantasia insieme al candore e alla purezza per guardare oltre le cose e oltre al niente…

Gauguin lo aveva detto: «C’è una maschera della verità. Se il colore è, per se stesso, un mistero ai nostri sensi, altrettanto misteriosamente è bene che noi lo usiamo.»

L’indicazione, preziosa, appare peraltro necessaria per dare un’ultima chiave di lettura circa alcuni reconditi motivi del lavoro di Capitani. Nel dovuto riconoscimento per quanto egli ha fatto fino a ieri, continua a dimostrare ancora oggi, promette, ispirato, per un domani che si annuncia imminente.


Fiesole, giugno 2003

 

di Giovanni Faccenda